<< E poi, naturalmente, c’era l’halibut; sodo, quasi aereo al gusto.
Trascorse le sue prime serate – solitarie salvo quando Wayne passava a prenderlo, per trasportarlo quasi di peso in certi bar della periferia odorosi di tabacco e di birra – chino sui ricettari, intento a rosolare filetti di halibut, a cercare inutilmente di dorarli senza che abbrustolissero, facendosi amari come il veleno. Fu un apprendistato faticoso, che costò il fondo – e la vita – ad almeno tre padelle antiaderenti, come se le nozioni imparate si fossero volatilizzate insieme al ricordo stesso di Anne-Marie, che solo talora tornava a turbarlo, subito cacciato via.
Dressing and halibut recipe: un quarto di libbra di blue cheese, siero di latte, maionese, acqua, pepe nero e bianco. E aglio, Dio volesse. Poi, l’halibut: due libbre in pezzi da cinque once; e cipolla rossa a fette. Il forno riscaldato a 350 °F, il condimento preparato come un abito su misura, dressing, chissà perché quel nome, quel dressing che deve ridursi, farsi thin, e così la ricetta diviene un ricordo erotico, thin dressing e thin dress, condimento ridotto, vestito sottile, che rivela il corpo, e di quel thin dressing va deposto uno strato nella pirofila, su cui adagiare, come una donna sul letto, le fette di halibut, da coprire con un lenzuolo ulteriore di condimento. E infine il formaggio, Roquefort o Stilton (perché se il piatto ha da esser esotico, che lo sia, senza gli infingimenti d’un bonario gorgonzola), in frammenti, schegge, brandelli, morceaux, mescolati alle fette d’aromatica cipolla rossa. Tutto nel forno (oven, stove, diceva la ricetta originale), finché quella polpa bianca non si disfi quasi, al contatto con la forchetta.
Il baked blue cheese halibut era collegato a Louise, la collega venuta da New Orleans a testare e tastare quanto gelida fosse la terra alaskana. Gambe lunghe, non affusolate ma tornite, muscolose anzi, ciclistici polpacci serrati come morse intorno a quelli di Giorgio.
Louise era bruna, e con un sapore metallico sulla schiena, a leccargliela. E instancabile ed estrema nell’amore, Sei un robot, le diceva lui. Ròbot, non robò, come pronunci male. Sono piemontese, mica americano. Non so cosa significhi piemontese ma ho fame: che cosa c’è da mangiare? Non avrai di nuovo preparato l’halibut? Lo sai che amo le cose semplici. E poi quel tuo halibut è sempre stopposo.
Ma certo che c’era l’halibut per cena, nonostante l’evidente disinteresse di Louise, e magari baked, con blue cheese, e c’era perché per Giorgio era indissolubile dalla presenza di Louise, fin dal giorno in cui l’aveva incontrata all’ingresso degli uffici dell’Alyeska Pipeline Service Company, con un vestitino blu tanto sottile da essere quasi trasparente, sotto il piumino imbottito che il luogo, la stagione imponevano; e allora quel dressing e quel dress, condimento e abito, erano diventati cose simili, inseparabili nel suo pensiero, come il sesso e l’halibut. >>
ALESSANDRO DEFILIPPI, Manca sempre una piccola cosa, Einaudi |