
<< L’ultima volta che lo vidi farsi su il consueto fagotto della biancheria sporca (magliette, grembiuli, canovacci) già mi sentivo più magro e più solo.
Leo era alto e fragile: alto di statura e di sentire; delicato e fragile nell’animo, fragile per intima natura come i cristalli che esaltavano i nostri vini migliori…
Io quell’amara passione del servaggio ch’è il ristorante ce l’ho nelle trippe.
La raggiunta agiatezza aveva consentito ai miei genitori – due osti ricchi e imbolsiti – di farmi studiare senza sussulti. Con pari noncuranza, imparai a tirare gli agnolotti caserecci e scandire i metri greci; a distinguere i Nebbioli dalle Barbere come Rabelais da Céline, convinto com’ero allora che un uomo il suo tempo migliore lo passasse seduto a un tavolo.
Ignaro olocausto, fui riconsegnato in tenera adolescenza alla macina familiare: conquistai la reggenza della Sala modulando consigli garbati e porgendo con garrula sveltezza i piatti arrangiati in cucina, là, tra l’untume dei forni.
Quando mia madre si beccò un’emorragia cerebrale, dopo tentativi con un paio d’altri cuochi, fu meglio chiudere: a Torino chi conosceva il mestiere trovava presto lavoro e un amico mi candidò per la «Saletta» di un vecchio locale in centro, venticinque, trenta coperti al massimo da vezzeggiare con cura e qualità di servizio tali da guadagnarci ben presto «la prestigiosa Stella Michelin!», secondo l’auspicio del Patron, un Langhetto enfatico e molliccio. >>
PAOLO FERRERO, Anime in carpione, Mursia
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